Giacomo Paris
Colgo come preoccupante quella che amo definire “deriva spiritualistica” della Filosofia e della cultura contemporanea in generale: anche lo sguardo gnostico, in molte sue manifestazioni, rischia di trasformarsi in una trappola mortale. Mi piacerebbe ripartire dal corpo come spazio/luogo da riempire, da ingigantire, uno spazio/luogo da cementare senza stereotipi e senza luoghi comuni.
Spesso l’atteggiamento i p e r – spiritualistico non permette di confrontarsi con l’aspetto tragico dell’esistenza, che merita di essere rimesso al centro. Interpreto tale i p e r – spiritualismo come rimozione, come spostamento.
Mi piacerebbe ripartire dal basso, ipotizzando ancora una volta l’ipotesi del nulla. Anche l’ipotesi del nulla merita di essere rimessa al centro: la centralità del corpo inteso nel suo limite ci apre a questa possibilità. È una questione di punti di partenza: bisognerebbe ridiscutere il punto di partenza, i punti di arrivo possono essere multipli. Il “punto di partenza corpo” evita il rischio dell’Uno inteso in senso monolitico – dottrinale; il corpo parte infatti dall’Oltre – Uno per migrare in spazi di senso che si sdoppiano continuamente.
È questa molteplicità del senso che mi interessa, che mi intriga. Non mi pare interessante imbrigliare il tutto nell’ipotesi dell’Uno Assoluto, una specie di andata e ritorno prefissati senza possibilità di deviazioni all’interno del percorso. Amo individuare tale dinamicità anche rispetto al binomio Eros/Agape: da Agape a Eros il percorso che ad oggi individuo come più significativo per me. Da Eros ad Agape mi appare come il “già visto”.
Poi, forse, ancora da Eros ad Agape e/o viceversa, ma ripartendo da Eros. Non si tratta di abbattere la Metafisica, anche quella è una questione “già vista”. Non intendo abbattere nulla, mi piace pensare a percorsi aperti, anarchici, dove partendo dal corpo (inteso come spazio del possibile) sia possibile approdare a diversi lidi.
La circolarità/interscambiabilità di Eros e Agape mi pare confermata dall’esperienza delle mistiche e dei mistici: difficile definire quelle esperienze puramente spirituali; Eros ed Agape si sovrappongono, si mascherano, si sostituiscono. Questo gioco mi appare creativo, mai ripetitivo. Scorgo in esso quella dimensione dinamica che spesso manca a un certo pensiero filosofico. L’estasi contiene infatti tutti i tratti dell’esperienza anarchica: nessuno può dire come si debba/possa giungere ad essa, le strade sono infinite, infiniti i crocicchi, già nell’esperienza erotica affiora di fatto quella mistica e viceversa.
Ogni esperienza umana, abilitante o disabilitante, vivificante o mortificante, si regge su questa non-stabilità del gioco Eros/Agape. Considero questa non-stabilità il punto di partenza possibile per una riflessione più ampia, più spaziosa, meno ancorata alle fissità del pensiero concettuale. Considero tale anarchismo metodologico il punto di partenza irrinunciabile per un discorso serio sull’uomo e sul suo destino. L’Uno, compreso di tutte le sue Unità, mi appare come un punto di arrivo possibile: non riesco neppure a immaginarlo come punto di partenza. Agape, inoltre, può tradursi – spesso avviene- in smania di controllo, in ansia di potere. La zona-corpo, invece, rappresenta lo spazio neutro di accoglienza dell’Altro: una vera e propria area di reciprocità, dove ogni cosa può veramente avvenire, il trionfo di Eros insomma. La superficie corporea, in tutta la sua precarietà, anticipa in qualche modo tutte le difficoltà della zona-Agape: in questo senso la zona-Eros apre la strada alle possibilità di Agape, che non rappresentano più una semplice via di fuga.
Dimenticando il corpo come via d’accesso obbligata, Agape diventerebbe puro esercizio speculativo, un girovagare indisturbati all’interno di un Iperuranio troppo facile e facilitante. Corpo significa invece realtà, limite, mancanza, menomazione, frattura: una via obbligata per una dimensione agapica migliorativa, densa, significativa. Imposizione ed esposizione sono i tratti fondamentali del corpo: l’imporsi definisce la sua accezione di mistero, del corpo si può dire e del corpo non si riesce mai a dire tutto; l’esporsi definisce invece la sua accezione fenomenica di evento, di fatto che si sviluppa, di spazio che non si chiude ma si apre. Questo lavoro sulle superfici conferisce alla vicenda umana le caratteristiche dell’umiltà, del riconoscimento; parafrasando G. D e l e u z e, potremmo dire che non esiste nulla di più profondo di ciò che è superficiale.
Dalle superfici alle profondità, dalle profondità alle superfici. Essenziale è garantire questo doppio binario. Non solo: ipotizzare che già le superfici possano essere profonde, sempre all’interno di un dinamismo fluido. Perché uscire dal corpo non permettendo ad esso di parlarci delle profondità? Perché pensare che le profondità agapiche debbano essere sempre il frutto di un’alternativa, di un superamento, di un andare oltre? Il corpo-limite non potrebbe invece diventare la nuova frontiera di un nuovo spiritualismo incarnato? Il termine nudità è quello che meglio esprime la posizione di partenza: nessuna sovrastruttura, nessun preconcetto, nessuna dottrina. Nudità e ferita, un consegnarsi totale al dramma della vita, al suo mistero e alla sua bellezza. Una specie di corpo spirituale, un corpo che è già spirito senza alcun bisogno di traduzione, di sviamento, di interpretazione, di trasformazione: individuare lo spirituale nel materiale, l’anima nel corpo.
È forse la pretesa di senso ad allontanarci dal fascino dell’Eros: forse basterebbe riappropriarsi di un sano carpe diem, senza evasioni in mondi alternativi e ipnotici. Semplicemente ridesiderare il corpo, tornare a desiderare di esser corpo. Riappropriarsi della dimensione del desiderio, perché è in esso che si annida la possibilità dell’ulteriore. Ripartire da Eros. Il corpo rappresenta e incarna il dono: all’Altro da sé si offre il corpo, ci si abbandona all’Altro con e attraverso il copro. Offrirsi nel e con il corpo significa uscire dalla dinamica del potere e del possesso. Con il pensiero si cerca di definire e contenere l’Altro, nel dono di sé attraverso il corpo si riscopre la naturalezza del darsi.
Tullio Carere-Comes
Le cose che accadono sono belle o brutte, buone o cattive, giuste o sbagliate, comprensibili o incomprensibili, piacevoli o dolorose; ma al di là di tutto questo c’è un fondo di serenità e di gioia che non è toccato da nulla di ciò che accade o esiste. È come il cielo che è sempre sereno al di sopra delle nuvole nere o rosa che lo coprono. Essenzialmente io sono questo fondo di gioia incondizionata.
La consapevolezza della mia essenza mi permette di partecipare al gioco dell’esistenza senza abbattermi se le nuvole sono nere e senza esaltarmi se sono rosa. C’è sempre qualcosa da godere o da imparare. E se c’è poco da godere vuol dire che c’è molto da imparare.
L’esistenzialismo antepone l’esistenza all’essenza. Così facendo rende secondaria l’essenza o la cancella del tutto, immaginando di correggere l’errore opposto dell’essenzialismo che a sua volta svaluta o rende irrilevante l’esistenza. Ciò che a essenzialisti ed esistenzialisti – o a spiritualisti e materialisti – sfugge è la coappartenenza originaria di essenza ed esistenza: dell’Uno e del Due, diceva Platone. Solo riflettendosi nell’esistenza l’essenza prende forma, solo alla luce dell’essenza l’esistenza prende significato. Perciò è stato detto che l’uomo ha tanto bisogno del dio quanto il dio dell’uomo.